La cecità è avvolgente

repubblica 22 dicembre 2016

All’aperto e in casa. Da solo e in compagnia. Le emozioni, la memoria le
relazioni. Così si difende dagli eventi quotidiani uno scrittore affetto
da cecità
La cecità è avvolgente.
Uscire all’aperto e vedere così poco – appena una foschia opalescente –
è al di là di ogni immaginazione.
Al chiuso, invece, buio opprimente.
Ciò significa che non puoi scrollarti di dosso la solitudine facendo una
passeggiata per strada, perché potresti inciampare, cadere, romperti
qualcosa.
Significa che non riesci a vedere un amico di passaggio, la cui sola
vista potrebbe tirarti su il morale come una chiacchierata vera e propria.
Le immagini, come i suoni, di rado evocano un flusso di ricordi di norma
inaccessibili in grado di illuminare e rendere rosea la giornata. “Chi
sei?” devo averlo chiesto a decine di persone che mi hanno rivolto la
parola.
Il loro linguaggio corporeo mi è invisibile, e così pure i loro sorrisi.
La natura umana è ammantata di ambiguità. Avresti bisogno di vedere il
tuo prossimo, ma sei incappucciato, come un prigioniero.
Avevo già perso la vista una volta a causa della cataratta venticinque
anni fa, ma grazie alla chirurgia l’avevo miracolosamente recuperata.
Poi le cose si sono aggravate di nuovo finché, raggiunti gli
ottant’anni, ho avuto bisogno del bastone.
Tap, tap. Il termine tecnico è visione ambulatoriale.
Ogni cosa diventa estemporanea, improvvisata di ora in ora.
Versare il caffè senza rovesciarlo, toccare il gabinetto così da non
farla sul pavimento, chiamare il servizio informazioni per avere un
numero di telefono che non puoi leggere al computer o nell’elenco abbonati.
Per mangiare hai bisogno di molto tempo, perché non vedi il cibo.
Quando prepari le uova strapazzate devi sfiorarle con i polpastrelli.
Ti affliggi all’idea di apparire ripugnante.
Per comprare beni di prima necessità devi richiedere aiuto.
La gentilezza degli estranei è proverbiale – una signora mi accompagna
attraverso il caos dell’aeroporto fino alla fermata dei taxi, una
cameriera mi restituisce la banconota da 50 dollari che le ho dato
credendo erroneamente che fosse da 20. La cecità è un handicap, di
fatto, ma tutto sommato è un handicap empatico, perché gli altri possono
facilmente immaginare di esserne colpiti e in qualche caso fanno
addirittura una sorta di prova generale quando di notte camminano e
inciampano in una casa completamente buia.
Ricordo che a scuola prendevamo in giro gli studenti che indossavano
occhiali dalle lenti spesse come fondi di bottiglia, ma non ridevamo mai
di quelli ciechi, i cui occhiali neri stavano a significare che non ci
potevano vedere proprio.
Le orecchie dovrebbero imparare a fungere da localizzatori.
Di notte cerco il bagno guidato dal ticchettio di un orologio.
Quando diventi cieco ti si presentano alcune incongruenze esasperanti,
ma hai anche una nuova scusa per non accettare impegni sociali ai quali
non hai voglia di partecipare.
In più, puoi sbarazzarti dell’automobile.
In ogni caso, io riesco ancora a distinguere la luce del giorno e le
sagome umane, le corone degli alberi e l’acqua corrente, e le foglie che
vorticano e svolazzano contro lo sfondo del cielo azzurro mi rammentano
che per 80 anni ho potuto ammirare intensamente vari continenti.
Magnifici scorci di montagna con prati verdeggianti e falesie scoscese
costellano i miei sogni, riflessi di ricordi di pascoli erbosi in
Sicilia e in Grecia dove abbonda il falasco, o di canyon variopinti, e
poi di grattacieli imponenti o della cappella di Matisse.
Di conseguenza, è un impoverimento impressionante risvegliarsi al
mattino. I volti non sono più solcati da rughe, i vetri delle finestre
non sono più punteggiati di goccioline di pioggia, i gatti non
ingaggiano zuffe per il territorio tenendo le code ben ritte, e i
francobolli non riproducono più soggetti a colori vivaci.
Dimentico la mia condizione e cerco a tastoni i miei occhiali da vista,
dove saranno mai finiti, come se potessero porre rimedio all’emergenza.
La cecità è un’emergenza.
Le imposte delle finestre sono chiuse, e si affronta la situazione in
una miriade di modi diversi.
La cecità come metafora non è incoraggiante.
Così ubriaco da esser cieco, un genitore cieco nei confronti della
miseria della sua prole, un politico cieco verso le necessità del suo
elettorato.
Quando sei cieco non puoi leggere un testo né l’aggrottarsi delle
sopracciglia altrui, ma se qualcuno inizia a parlarti e non lo vedi,
resta tranquillo, aspetta fino a quando non lo capirai.
La chiave di tutto è l’equilibrio.
Le notti possono illuminarsi se il mondo si imbianca misteriosamente,
come se i nervi ottici si ribellassero. E’ strano quando una parte del
corpo muore ma tutto il resto no.
Nella cecità non ci disfiamo dei nostri occhi, continuiamo a consultarli
in vario modo a vuoto, proprio come a un amputato sembra che gli arti
perduti quasi funzionino ancora.
Come la caverna di Platone, così il nostro cervello è fatto di ricordi
che appaiono fugacemente su una parete.
Le fenomenalità della vista sono adesso ricordi, ma il mio sesto senso è
stato d’aiuto.
Chiamatela intuizione.
Non mi sono mai sentito disperato, non più di quando ero piccolo e non
riuscivo a parlare.
La cecità assomiglia a un infarto prolungato.
Le funzioni si deteriorano a mano a mano che il tuo passo rallenta. I
muscoli si atrofizzano e così pure le sensibilità. Non puoi esaminare un
nuovo volto, eppure gli anfratti della tua mente hanno più cose da
mettere in collegamento tra loro se la vista è andata persa alla mezza
età o più tardi ancora.
Puoi dedicarti alla speleologia.
Dove sono i miei occhi, penso all’improvviso, quasi avessi dimenticato
da qualche parte il cappotto.
I paesaggi diventano impressionistici, i dettagli ne sono cancellati.
Al cuore di tutto un’abbreviazione.
Ogni input è preziosissimo: le conversazioni che altre persone si
soffermano a regalarti, al di là della loro nuda bellezza, descrivono
scenari stimolanti che non puoi vedere.
Per decifrare i titoli di una locandina di giornale all’edicola occorre
la luce forte del sole, ma un’illuminazione schermata ha usi più
sottili, e nel buio assoluto un cieco è addirittura in vantaggio.
La novità è il sale della vita e dà sapore alla nostra routine
quotidiana anche quando perdiamo la vista.
Gli occhi non ti obbediscono quando fai quattro passi, eppure polmoni,
gambe e braccia sono in forma come non mai.
Per semplice esercizio, mi sollevo di slancio da ogni sedia oppure muovo
le gambe come andassi in bicicletta quando sono a letto, anche se poi
purtroppo mi capita di prendere due scarpe completamente diverse e le
indosso a forza. Spesso, anche le calze sono diverse. Perché non sono
più eccentrico? mi chiede un amico.
Sono indifeso, non posso essere eccentrico. La cecità è passività
forzata. Sono diventato un cittadino di serie B, oggetto di
preoccupazione. L’eccentricità non persuaderebbe la gente a trattarmi
con sollecitudine.
Disabile, quella definizione arida che un tempo nel corso della mia vita
si usava nel caso di molti altri, adesso si applica a me.
E per quanto potrò mi rappacificherò con essa.
Edward Hoagland scrive di viaggi e ha pubblicato il romanzo In the
country of the blind ( Nel paese dei ciechi) © 2016 The New York Times.
Traduzione di Anna Bissanti ©RIPRODUZIONE RISERVATA DISEGNO DI GABRIELLA
GIANDELLI.
EDWARD HOAGLAND

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